In Italia ad oggi sono 104 i femminicidi contro i 100 del 2021 nello stesso giorno dell’anno (dati della Direzione centrale della Polizia criminale del Dipartimento della Pubblica Sicurezza). Anche i dati disaggregati sono raccapriccianti: il 58,8 per cento delle donne è vittima di un partner o ex partner, la cui età non certamente elevata (più di un omicida su 4 è nella fascia tra i 31 e i 44 anni). Dati che ci rimandano un’immagine su cui soffermarsi per riflettere anche sulle dinamiche attuate dalle nuove generazioni e alla debole speranza che si potrebbe riporre in tal senso per un cambio culturale.

ll fenomeno della violenza contro le donne ha radici culturali antiche e basate su rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi, ha carattere strutturale in quanto basata sul genere e rappresenta uno dei meccanismi sociali attraverso cui le donne sono percepite e costrette in una posizione subordinata rispetto agli uomini. La natura di questo fenomeno, quindi, è fortemente determinata da stereotipi, pregiudizi, discriminazioni di genere.

Basta leggere un articolo di giornale, vedere un servizio televisivo, ascoltare qualche programma radiofonico o leggere i post sui social per rendersi conto, qualora si presti la dovuta attenzione, che il racconto della violenza sulle donne è fortemente pervaso da stereotipi e pregiudizi. Una narrazione, presente sulla stampa e nelle sentenze dei tribunali con l’uso di un linguaggio che contribuisce a perpetuare una rappresentazione sociale della violenza che mistifica il fenomeno riducendo le responsabilità dell’aggressore.

Va sottolineato che il linguaggio crea e descrive la realtà e, parafrasando il filosofo e linguista Naom Chomsky: “il linguaggio ci parla”, ci dice chi siamo e come la pensiamo. Le parole sono importanti perché classificano la realtà, l’uso di termini come “raptus”, “lite famigliare” o “dramma della gelosia” non possono e non devono in alcun modo descrivere il fenomeno della violenza sulle donne. Eppure continuano ad essere utilizzate indiscriminatamente da tutti i tipi di testate, negando in tal modo il carattere ricorsivo della violenza contro le donne, che lungi dall’essere un episodio di perdita di controllo, si manifesta piuttosto come un esercizio continuo di prevaricazione. Se invece il termine “raptus” non ricorre quasi mai nelle sentenze, resta invece il frame narrativo dell’impulso quasi incontrollabile che spinge l’uomo alla violenza ad esempio: “lo scatto d’ira” e anche in questo caso si nega il carattere strutturale e ricorsivo della violenza. Come nello “scenario” della gelosia che è radicato nella nostra società e che fin troppo spesso “entra” nell’aula del tribunale ed è riprodotto nelle sentenze. La gelosia intesa come forma di amore che rappresentata uno degli stereotipi più diffusi e radicati. Mentre nelle situazioni di violenza quello che si manifesta è un esercizio di potere e di controllo su quella che è considerata dal maltrattante, a tutti gli effetti, una proprietà: la donna perde il diritto alla propria individualità, non è più soggetto nella relazione, ma diventa oggetto di possesso.

I mass media in tal senso hanno una grande responsabilità, la stessa che hanno nella sovra-rappresentazione di fenomeni minoritari di violenza rispetto a quanto invece corrisponde effettivamente nella realtà. Se pensiamo che il reato più frequente registrato dalle procure è dato dalla violenza domestica, poi lo stalking, terzo la violenza sessuale e al quarto il femminicidio. Tuttavia tra i casi di violenza riportati dalla stampa ci viene restituito un quadro non attinente alla realtà in cui il reato più diffuso è invece lo stalking con seguito dai casi di femminicidio. Mentre la violenza domestica è solo al terzo posto che invece sono la larga maggioranza dei reati contro le donne. Tra l’altro proprio la violenza domestica può generare un altro drammatico fenomeno, quello della violenza assistita da parte dei minori che vivono all’interno del nucleo famigliare generando conseguenze psicologiche che li accompagneranno per tutta la vita.

Inoltre, nel racconto dei media tra uomo e donna c’è un notevole squilibrio nella rappresentazione del colpevole. Se proviamo a mettere insieme le parole che emergono dagli articoli di giornale o dai servizi televisivi l’uomo insieme a suoi reati quasi scompare. Mentre il racconto è sempre incentrato sulla vittima, la donna e spesso su di lei viene riportato un linguaggio colpevolizzante. Il fenomeno, definito “victim blaming”, sta nel ritenere la vittima responsabile di quanto le è accaduto, sia in maniera diretta ad esempio facendo riferimento a come era vestita o a cosa aveva fatto per fare arrabbiare il compagno, oppure in maniera indiretta analizzando gli stili di vita e il comportamento della donna. Senza dimenticare che alle donne è negata la soggettività, non sono quasi mai protagoniste del racconto ma diventano oggetto passivo. Ad esempio vengono chiamate solo per nome mentre per l’uomo è usato il cognome, come a sottolineare uno status di carattere filiale e di mancata indipendenza.

C’è un enorme responsabilità nella rappresentazione sociale della violenza e nell’uso delle parole perché troppo spesso tendono ad attenuare o omettere le responsabilità degli uomini protagonisti di episodi e reati di violenza. Dovremmo tutte e tutti impegnarci e, questa è la raccomandazione che viene dalle professioniste della comunicazione, di spogliare dalla retorica i testi che si occupano di violenza di genere e attenersi esclusivamente ai fatti oggettivi. Solo in questo modo si eviterà il rischio di distorsione che i pregiudizi comportano e si rafforzerà la capacità di giustizia del Paese.

Beatrice Curci – giornalista