Violenza sulle donne, quanto ci costa la colpevolizzazione della vittima?

L’unico colpevole della violenza è chi la commette. Eppure, troppo spesso, sono le stesse vittime a essere colpevolizzate. “Era vestita troppo provocante, se l’è cercata”, “se era ubriaca è in parte responsabile dello stupro”, “troppo brutta per essere stuprata” sono solo alcuni dei pensieri (drammaticamente) comuni che ci riporta la cronaca recente.

A questo vergognoso elenco, si aggiunge ora “non reagire tempestivamente ai palpeggiamenti, aspettando almeno venti secondi per fermare l’azione”. Parliamo della sentenza con cui il tribunale di Busto Arsizio ha assolto il sindacalista della Fit Cisl Raffaele Meola dalle accuse di molestie nei confronti dall’assistente di volo Barbara D’Astolto per “insussistenza del fatto” perché la reazione della donna ai suoi palpeggiamenti non è arrivata subito ma soltanto dopo “almeno venti secondi”.

Ma allora quanto ci costa la paura? E quanto influisce questo fenomeno di colpevolizzazione della vittima conosciuto come “victim blaming”?

Lo abbiamo chiesto alla dottoressa Teresa Bruno, psicologa psicoterapeuta, past president dell’associazione Artemisia (centro antiviolenza con sede a Firenze) e membro attivo della Community Donne Protagoniste in Sanità.

La prima domanda sorge spontanea. Davvero 20 secondi sono considerati troppi per reagire a una molestia? Come si fa a misurare la paura?

Prima di tutto, non possiamo capire queste situazioni se non teniamo conto dell’impatto che hanno le molestie e le aggressioni sessuali su chi ne è vittima. Un impatto traumatico e confusivo perché non ci si aspetta questi comportamenti abusivi, che siano da parte di persone conosciute o sconosciute. E in un momento di confusione, prima di capire la situazione, non siamo in grado di reagire o comunque la capacità di risposta è ovviamente molto più difficile. In questo caso parliamo di aggressioni sessuali, ma riguarda tutti gli esseri umani di fronte a qualsiasi minaccia che provoca confusione, paralisi, senso di impotenza. Tutto questo è conosciuto ma si stenta a collegare le difficoltà delle vittime all’impatto dell’evento.

Il primo passo è quindi tenere conto dello stato d’animo di chi subisce la violenza. Ma, purtroppo, la narrazione privilegia sempre il punto di vista di chi quella violenza la commette. Come funzionano queste dinamiche di vittimizzazione?

Valutare la responsabilità degli aggressori partendo dai comportamenti delle vittime è un fenomeno generalizzato, riflesso di una cultura che vede la donna come ‘provocatrice’ e causa della violenza. Questo porta alla vittimizzazione secondaria, cioè a un’ulteriore vittimizzazione che avviene per mano dell’apparato giudiziario o di cura, dove la vittima viene sottoposta a un’ulteriore sofferenza e ha paura di non essere creduta, di non essere accolta e di essere, appunto, colpevolizzata. In questo contesto le sentenze, come dicono alcuni giudici illuminati, riportano spesso stereotipi culturali.

I casi, in effetti, sono innumerevoli. Quali sono i primi esempi che le vengono in mente giusto per ricordare il contesto di cui stiamo parlando?

Non poteva esserci violenza sessuale perché l’imputato trovava la vittima brutta e quindi non era credibile che l’avesse aggredita. La sentenza della Corte di Appello di Ancona è stata annullata dalla Cassazione, ma il caso rimane eclatante. O la vicenda delle ‘baby-squillo’, in cui non è stata messa in luce la responsabilità degli uomini adulti che si sono approfittati di ragazze adolescenti, come se la responsabilità fosse delle ragazzine. Persino la Corte europea dei diritti dell’uomo ha sanzionato l’Italia per il linguaggio usato nella sentenza di un caso di violenza sessuale di gruppo, linguaggio irrispettoso e pieno di stereotipi e pregiudizi.

Questo spiega perché c’è ancora tanta paura a denunciare?

Da molte ricerche, compresa l’Istat, emerge che la percentuale di donne che denuncia le violenze sessuali non arriva al 10%. Nel 2019 viene aumentato da 6 a 12 mesi il tempo per poter sporgere denuncia rispetto alla violenza sessuale (legge n. 69 del 1996). Quindi c’è stata una sorta di presa di consapevolezza rispetto alle difficoltà delle vittime legate al trauma subito. Reagire e fare denuncia ha bisogno di tempo e spesso la vergogna impedisce di parlare di quanto avvenuto. Insomma, le leggi nazionali e i protocolli internazionali ci sono, ma se poi gli stereotipi culturali rendono impossibile la loro applicazione corretta, ci troviamo di fronte a un paradosso… Nel nostro Paese, uomini e donne hanno ancora una serie di idee sulla violenza molto legata a schemi che ci impediscono di vedere realmente i fatti, anche dal punto di vista giudiziario. E non dimentichiamo i bambini che assistono alle violenze, gli impatti traumatici sulla loro vita. Negli ultimi 20 anni le cose sono migliorate, ma c’è ancora tanta strada da fare”.

Un appello a cui aderisce la Community perché serve necessariamente un cambiamento culturale in grado di scardinare gli stereotipi sui ruoli di genere e sulla violenza sessuale, oggetto fra l’altro di una indagine Istat che ha dimostrato come persista il pregiudizio che addebita alla donna la responsabilità della violenza sessuale subita.

Il 39,3% della popolazione ritiene che una donna è in grado di sottrarsi a un rapporto sessuale se davvero non lo vuole. Il 23,9% pensa che le donne possano provocare la violenza sessuale con il loro modo di vestire; il 15,1% pensa che una donna che subisce violenza sessuale quando è ubriaca o sotto l’effetto di droghe sia almeno in parte responsabile dello stupro. Con questi numeri, il cambiamento deve essere urgente e radicale.

 

Intervista a cura di Elisa Fornasini, addetta stampa Azienda USL di Ferrara